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Commento alla Parola domenicale

11 dicembre

III domenica del Tempo di Avvento

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Sei tu colui che deve venire… è la domanda che riecheggia quest’oggi… Giovanni il Battista, il precursore, dalla prigione nella quale è trattenuto a causa della sua predicazione, manda i discepoli ad incontrare il Maestro con quella provocazione nel cuore, con l’interrogativo di chi è cosciente di non possedere la verità, di non sapere già tutto, di non aver già concluso il suo cammino di fede, ma di essere lungo il cammino.

Giovanni intravede la luce che Gesù è venuto a portare e invia i suoi discepoli perché anche loro sperimentino la grazia di avere un cuore aperto per accogliere il Messia, così come è stato annunciato dai profeti eppure anche tanto diverso dalle attese del suo tempo… li invia non con una risposta in tasca ma con una domanda. Se anche noi avessimo il coraggio di tenere in tasca degli interrogativi profondi e non solo delle risposte già pronte…

Ed ecco allora il tema della speranza che ci viene proposto per la settimana che si apre. Sperare è l’azione propria di chi confida in altro fuori di lui, di chi non ha già la certezza in mano. Se so già non ho più bisogno di sperare, se l’evento è certo al limite spererò che vada a buon fine, ma non ho bisogno di sperare nell’evento stesso. Noi non speriamo che venga il Natale, in quanto lo scorrere dei giorni lo farà giungere, salvo che giunga la fine del mondo… al limite speriamo di arrivarci oppure speriamo di viverlo serenamente in famiglia come occasione di incontro e di rinforzo dei legami con le persone più care, potremo sperare di arrivare al Natale con il cuore pronto…

Sperare, aprirsi con fiducia al domani, conservare il cuore paziente ed umile… non sono atteggiamenti messi da parte col passare delle settimane, ma siamo in un crescendo perché senza la pazienza del costruire e l’umiltà di riconoscerci bisognosi, non saremo capaci nemmeno di custodire nel cuore le domande e la speranza del domani.

Quanto è triste il cuore di chi non è più capace di sperare… il cuore che non spera è un cuore che dispera… non lasciamoci rubare la speranza. Quante volte gli eventi tristi oppure quegli eventi interminabili che non hanno mai una soluzione ci rendono difficile confidare ancora che qualcosa di buono possa succedere, possa scardinare delle situazioni incancrenite o, a volte, la ruggine del passare dei giorni e dei mesi come rende difficile tenere il cuore nella speranza…

Chiediamo al Signore che lubrifichi i nostri cuori, li faccia rivitalizzare con la sua speranza, lui sia la luce sul nostro cammino, una luce che non si affievolisce, una domanda che tiene perennemente vivi e capaci di attesa, di speranza.

Di |2016-12-10T10:43:47+01:0011/12/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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04 dicembre

II domenica del Tempo di Avvento

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Siamo nel deserto, in ascolto di Giovanni il Battista che ci raggiunge con il suo invito deciso e decisivo alla conversione. Non basta essere uditori, non è sufficiente sentire per poter dire di aver fatto nostro questo invito, l’azione che ci viene richiesta è quella dell’ascoltare, del fare nostro, interiorizzandolo, ciò che il profeta ha annunciato. Ma non è facile. Per ascoltare veramente è necessario riconoscere che colui che parla ha qualcosa di importante per me, per la mia vita, da annunciarmi. In altre parole è necessario che io riconosca di non bastare a me stesso ma di aver bisogno di quanti camminano accanto a me. Questa è la chiave che apre il nostro cuore all’ascolto vero, a quell’ascolto che si traduce poi in conversione, in capacità di produrre frutti buoni.

Se settimana scorsa abbiamo sperimentato il tema della pazienza del fare ogni giorno il piccolo passo possibile, questa settimana siamo invitati a non fare quel passo da soli ma a metterci in discussione per scoprire intorno a noi una comunità di fratelli che camminano insieme, magari con velocità diverse (chi più spedito, chi più lento), ma tutti insieme, verso l’unica meta che è il Signore.

L’umiltà è quell’atteggiamento che ci fa riconoscere di non essere noi i detentori di quella meta, la percepiamo, ne sentiamo il valore e l’importanza per la nostra vita, ma non la possediamo, non è qualcosa di nostro. Verso quella meta ci possiamo incamminare solo se riconosciamo il nostro bisogno di convertirci, di cambiare, il nostro bisogno di Lui. Potremmo dire che la meta, in qualche modo ci attira a sé, se noi accogliamo liberamente di lasciarci attrarre.

Umiltà allora non è rinuncia alla libertà, a favore di qualcun altro, ma mettere la mia libertà nelle mani di Colui che è più grande di me, di chi mi ha regalato questa vita e mi ha offerto la salvezza.

L’umiltà non è nemmeno mancanza di autostima, non è umile la persona che non riconosce il suo valore e la sua possibilità di seminare il bene nei solchi della sua esistenza, quella è una persona malata, che ha bisogno di trovare sostegno per scorgere le ricchezze delle quali il Signore ha colmato anche la sua vita, come quella di ogni persona. Umiltà è riconoscere di non essere il tutto, riconoscere di aver bisogno, riconoscere con gioia che il Signore viene, non per castigare ma per visitare il suo popolo. Riconoscere il nostro essere creati per la lode di Dio, gioire della sua presenza nella nostra vita.

Sì perché l’umiltà viaggia a braccetto con la gioia del cuore. La tristezza non è degli umili. Il Signore colmi la nostra vita di umiltà per poter camminare incontro a lui portando frutti autentici di conversione.

Di |2016-12-03T10:51:52+01:0004/12/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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27 novembre

I domenica del Tempo di Avvento (anno A)

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Siamo all’inizio dell’avvento e, quindi dell’anno liturgico, in questa domenica la Chiesa ci invita a riflettere in merito all’attesa, allo stare pronti, all’avere pazienza. Sì, questa è la parola chiave che la nostra Diocesi ha pensato per concentrare la nostra attenzione in questa prima tappa di avvento.

Vegliate perché non sapete… vegliare è un atteggiamento che viaggia insieme alla pazienza, all’attesa pronta. Essere pazienti non vuol dire essere menefreghisti, persone insipide che non sanno di niente e per i quali nulla conta nella vita, per i quali nulla li tocca direttamente, che si chiamano fuori dal gioco della vita. Ed essere pazienti non va confuso nemmeno con l’essere dei lazzaroni, dei lavativi che vivono in perenne attesa che altri facciano al posto loro o che le cose si sistemino da sole senza metterci un dito, senza metterci nessun impegno.

Questa non è pazienza. Essere pazienti vuol dire essere operosi, vivere attivamente, metterci tutto te stesso, fare un passo dopo l’altro, con calma sì, ma il passo lo devi compiere.

Per comprendere la pazienza possiamo utilizzare l’immagine delle relazioni personali. Una relazione non si costruisce in un giorno solo, ha bisogno di tempo perché possa diventare solida e significativa; allo stesso modo ha bisogno di essere continuamente alimentata e coltivata altrimenti si logora e si deteriora. Essere pazienti in una relazione non vuol dire chiamarsi fuori, aspettando solo che sia l’altro a muoversi, essere pazienti vuol dire coltivare la mia parte di relazione, fare tutto ciò che posso fare io, un passo ogni giorno, senza pretendere di giungere alla meta subito, quello no, ma non arriverò mai a destinazione se non faccio nemmeno un passo.

Se questo vale per la nostra vita quotidiana di uomini e donne inserite in un ampio cerchio di relazioni, allo stesso modo vale per la nostra vita di fede: il Signore fa di tutto per venirci incontro, ma se noi non coltiviamo la nostra relazione con lui, se non curiamo con pazienza il nostro cuore perché gioisca dall’incontro con il Signore, perché viva e sperimenti sul serio quell’amicizia, quella solida relazione di cura e di amore con Dio, allora il nostro cuore non sarà pronto, sarà perennemente fermo al punto di partenza ma senza aver mai compiuto nessun passo verso la meta.

Quei due uomini nel campo o quelle due donne alla mola stanno facendo esattamente le stesse cose, non è questione di azioni ma di cuore pronto, vigilante, capace di attesa. Chiediamo al Signore in questa settimana che ci aiuti ad avere un cuore paziente, attento e vigilante, capace di palpitare di amore fiducioso per lui.

Di |2016-11-26T10:48:43+01:0027/11/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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13 novembre

XXXIII domenica del Tempo Ordinario

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Siamo ormai quasi al termine dell’anno liturgico e la Chiesa ci invita a riflettere sulla nostra speranza, su quell’apertura che la nostra fede ci offre rispetto alla vita futura. Noi non abbiamo davanti il nulla, la fine, ma abbiamo la luce stessa del Signore che rischiara il nostro sguardo.

Quante volte succede anche a noi, come alla gente del tempo di Gesù di fermarci ad osservare le cose che ci circondano, quelle belle pietre del tempio… sì, guardare solamente le cose materiali, quelle pur belle che ci offre la natura o che l’ingegno e l’arte umana ha realizzato nel corso del tempo… dobbiamo ricordare che il tempio di Gerusalemme doveva essere veramente qualcosa di straordinario, di artisticamente grandioso e con all’interno un tesoro inestimabile… ma se quegli uomini, come ciascuno di noi, si fermano ad osservare solo la grandiosità delle pietre, solo la bellezza di ciò che ci circonda potremmo dire che è come metterci ad osservare un quadro al buio avendo in mano solo una misera candela… certo vedremo qualcosa ma perderemo la possibilità di vedere e di cogliere il meglio.

Così era del tempio, certo che quelle pietre erano davvero belle e raffinate, nessuno discute questo, ma quelle pietre non erano state poste lì per essere ammirate ma perché diventassero strumento per incontrare Dio, anche con la loro bellezza… ma ricordando sempre che quella bellezza è destinata a scomparire, come ogni realtà umana, mentre la possibilità di incontrare Dio non passa mai. È quasi imbarazzante parlare del fatto che le pietre umane, in qualche modo sappiamo che prima o poi vengono meno… soprattutto in questi giorni nei quali il nostro Paese è ancora tristemente segnato dalla distruzione che il terremoto ha lasciato dietro di sé, nella quale anche gli edifici storicamente importanti sono crollati. Ma allo stesso modo come non ricordare che lo stesso tempio di Gerusalemme venne distrutto nel 70 d.C. o come altri monumenti storici sono stati distrutti dalla furia umana negli scorsi mesi…

Ma Gesù non ci vuole chiudere nella paura, bensì, come dicevo prima, aprirci alla speranza e possiamo dire che in questa direzione va proprio la conclusione del brano che abbiamo appena ascoltato, quando Gesù dice che ci darà parola e sapienza e che nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto e, ancora, che salveremo la nostra vita. Sì, se sapremo restare ancorati a lui, se ci accorgeremo che al di là di ogni progetto o costruzione umana, lui resta, lui è la base solida e sicura sulla quale fondare la nostra vita, se sentiremo nel nostro cuore la gioia di essere suoi discepoli, allora nulla di quanto accadrà fuori di noi ci potrà fare paura, potrà far calare le tenebre, la notte sulla nostra vita, perché avremo lo sguardo orientato verso la luce vera, verso la gioia del Signore Risorto che ha vinto la morte, ha vinto le tenebre per offrirci la vita vera, per offrirci la sua luce.

Di |2016-11-13T09:38:00+01:0013/11/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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06 novembre

XXXII domenica del Tempo Ordinario

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Quest’oggi ci troviamo di fronte ad una delle sette ebraiche, quella dei sadducei, che come sottolinea Luca era caratterizzata, fra le altre cose, dal non credere nella risurrezione. Si rivolgono a Gesù per cercare di metterlo in ridicolo, per dimostrare che loro hanno ragione a non credere che ci sia una vita dopo la morte e allora provano a mettere in scena la storia di quella donna che non riesce ad avere figli da nessuno dei suoi 7 mariti.

Certo che se si parte dalla prospettiva che la vita futura altro non sia che il prolungamento migliorato di quella presente, si cade nel ridicolo, si vede come impossibile la risurrezione. Gesù infatti non cade nel tranello né di rispondere direttamente alla loro domanda, né di descrivere come sarà la vita futura.

Potremmo dire che Gesù non risponde alla domanda “come sarà?” bensì offre una riflessione su Colui che ci assicura la vita eterna, potremmo quindi dire che non risponde al “come” ma al “con chi?”.

Gesù ci assicura che la morte non pone la parola fine sulla nostra esistenza, non c’è il nulla dopo la morte, non c’è nemmeno una realtà che in qualche modo scimmiotta quella attuale… anche se noi a volte abbiamo un po’ bisogno di rappresentarcela così perché non siamo in grado di descriverla in modo diverso. La vita eterna, la risurrezione implica la condizione di chi può contemplare eternamente il volto del Padre, quel volto che Gesù ci ha reso visibile con la sua stessa esistenza, quel volto amorevole e misericordioso che ci accoglie proprio perché Dio non è dei morti ma dei viventi.

Questa domenica, inserita egregiamente nel periodo nel quale abbiamo celebrato i Santi e i morti, ci aiuta ulteriormente ad aprire i nostri occhi all’orizzonte della speranza, quella speranza che non illude e non delude ma quella speranza che ci proietta sulla gioia di sentirci accolti da un Padre che ha cura di noi, che non smette di amare nemmeno dopo la morte, anzi per il quale la morte è quel passaggio che ci permetterà di vivere pienamente con lui.

Allora forse non sarà tanto questione di avere delle montagne sulle quali poter andare… o di avere moglie o marito ma la nostra esistenza si innesterà in Dio stesso.

Paolo conclude la seconda lettura di oggi dicendo che il Signore guidi i vostri cuori all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo, sì ci guidi a questo a quell’amore di Dio che non finiremo mai di sperimentare e di accogliere fino in fondo fino al giorno in cui saremo riuniti tutti con lui, allora sì quell’amore porterà frutti pieni in ciascuno di noi.

Di |2016-11-05T15:17:45+01:0006/11/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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30 ottobre

XXXI domenica del Tempo Ordinario

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Che agitazione si respira per le strade di Gerico… il Maestro è arrivato, sta attraversando la città. Tutti accorrono, tutti lo vogliono vedere, incontrare, ascoltare la sua parola… magari avere la prova diretta di qualche miracolo compiuto…

Buoni e cattivi, praticanti e peccatori, tutti si ammassano lungo le strade, non si può mancare a questo evento. In mezzo a tutti, o meglio, dietro a tutti ecco un ometto piccolino che gli altri scansano, che nessuno lascia passare anzi che cercano di tenersi alla larga. Si tratta del capo dei pubblicani, dell’esattore delle imposte complice degli usurpatori romani e che vive nella ricchezza a scapito dei suoi fratelli ebrei.

Ma lui non si arrende. Non sappiamo bene cosa lo spinga a voler incontrare Gesù, quali attese riempiono il suo cuore da quel passaggio, ma lui è lì e per nulla al mondo si lascerà sfuggire l’evento. Ha quasi il sapore della macchietta il vederlo salire, arrampicarsi su quella pianta per poter guardare dall’alto Gesù. Tra l’altro, da quella posizione nessuno potrà notarlo, sarà lì tranquillo, può vedere tutto senza essere visto… perché chi mai si prenderà la briga di alzare gli occhi in mezzo alle foglie di quella pianta?

Ma… potremmo dire… colpo di scena… qualcuno gli occhi li alza… il Maestro, così circondato di persone che gli si accalcano addosso, alza il suo sguardo e incrocia quello di Zaccheo. Che emozione, Gesù si è accorto di lui… non solo, ma gli rivolge anche la sua parola, lo chiama e… lo chiama per nome! Chissà quanto gli batteva forte il cuore in quel momento.

Vorrei soffermarmi su quello sguardo avvolgente del Maestro, lo sguardo di Dio sulla mia esistenza è uno sguardo che sempre mi porta ad uscire da me stesso, dal mio arroccarmi sulla mia pianta sicura, dalla quale posso guardare tutto e tutti e magari anche permettermi di giudicare da fuori… sono quelle barriere, quelle false sicurezze delle quali ci circondiamo per difenderci da chi ci sta intorno e, magari… anche dal Signore stesso.

Ma il Signore volge lo sguardo su ciascuno di noi, se noi cerchiamo di incrociare il suo. Che bello, mi pare quasi la trasposizione del Vangelo di settimana scorsa, la parabola dei due uomini che salgono al tempio a pregare, uno vede solo sé stesso e non incontra Dio, invece il peccatore incrocia lo sguardo misericordioso di Dio e si apre all’azione della sua grazia che si rivolge proprio verso di lui.

Così è per Zaccheo, da lassù incrocia lo sguardo benevolo e misericordioso di Gesù e lascia che lui gli cambi il cuore e la vita, al punto di dare la metà dei beni ai poveri e rimediare verso quanti aveva frodato.

Anche noi, oggi, sentiamoci avvolti dallo sguardo di Gesù, accettiamo di porre gli occhi del nostro cuore nei suoi occhi, lasciamo che lui venga nella nostra vita, ospitiamolo nella casa del nostro cuore e lui ci offrirà una vita diversa, un modo nuovo di sentirci uomini e donne fino in fondo perché la sua grazia allargherà il nostro cuore e la nostra vita rendendoli sempre più simili a Lui.

Di |2016-10-30T09:55:02+01:0030/10/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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09 ottobre

XXVIII domenica del Tempo Ordinario

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Siamo in cammino verso Gerusalemme e Gesù incontra un gruppo di lebbrosi che lo supplicano di essere guariti: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. A prima vista il Maestro sembra mantenere le distanze, disinteressarsi della loro situazione, sembra quasi chiamarsi fuori e rinviare il problema a qualcun altro… Andate dai sacerdoti… spettava infatti a loro il definire lo stato di malattia o di guarigione rispetto a questa malattia.
Ma Gesù non è stato indifferente, la guarigione avviene lungo la via, lungo quella strada che i 10 percorrono con fiducia in nome del maestro… che senso avrebbe avuto andare infatti dai sacerdoti se la lebbra non fosse stata guarita? La loro fiducia, la loro fede permette che il miracolo avvenga, ma mentre 9 sono obbedienti al maestro, ecco che uno disobbedisce e vistosi guarito fa dietro front e decide di ritornare da Gesù per esprimere la sua riconoscenza.
Mi piace l’ambivalenza di questo termine: esprime riconoscenza nel senso che esprime il suo grazie al maestro per la guarigione, ma non solo esprime il suo aver riconosciuto che è opera misteriosa eppure straordinaria di Gesù il suo stato di guarigione.
E Gesù potremmo dire che loda la disobbedienza… il lebbroso è andato contro la legge tornando da Gesù e anche contro le indicazioni che il Maestro stesso aveva dato ai 10 malati.
È straordinaria la sottolineatura che Luca ancora una volta ci offre: il samaritano guarito anzitutto loda Dio a gran voce per il dono della sua guarigione, poi ringrazia Gesù.
Quanti doni ci offre Dio all’interno della nostra vita, quante volte, come quei 10 veniamo guariti o ci riconosciamo di essere stati oggetto di cura da parte di Dio… diciamo lungo la strada, lungo il cammino di ogni giorno, magari non durante la preghiera, ma in un altro momento e magari nemmeno con il dono che chiedevamo… ad esempio la guarigione nostra o di un nostro caro, ma magari con il dono di saper portare il peso della nostra situazione… i tempi e i modi dell’azione del Signore non corrispondono spesso alle nostre attese e si manifestano nell’ordinarietà della strada che percorriamo.
Ogni domenica torniamo alla sua mensa, qui a celebrare l’Eucarestia attorno al suo altare proprio per esprimere il nostro rendimento di grazie, la nostra lode al Signore per i benefici ricevuti nella nostra vita. Sia questo lo stile delle nostre celebrazioni: una lode e una riconoscenza a Dio per le meraviglie operate in ciascuno di noi.

Di |2016-10-09T09:12:58+02:0009/10/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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02 ottobre

XXVII domenica del Tempo Ordinario

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Quanto siamo portati a misurare noi uomini, a valutare, soppesare, giudicare… non solo gli altri o ciò che avviene intorno a noi, ma perfino noi stessi. La domanda posta dagli apostoli fa intravedere proprio questo, la necessità della misurazione per cui sentendosi mancanti si trovano a chiedere al Maestro che accresca la loro fede…

Peccato che la fede non è come la farina, non può andare né a peso né a quantità o volume… al punto che Gesù risponde dicendo che basterebbe una fede piccolissima per fare cose grandissime… stiamo però attenti ancora una volta all’uso delle immagini che fa Gesù… perché credo che nessuno di noi abbia mai detto ad una pianta di sradicarsi… o sia mai riuscito a farlo qualora ci avesse provato… ma non per questo forse, dobbiamo abbatterci dicendo di non aver fede.

La fede significa abbandono in Dio, riconoscere che non sono io ma è Lui a guidare ed orientare la mia vita. Quando riesco ad accogliere ed accettare questo, quando non voglio essere pilota e navigatore, mappa, bussola e meta della mia vita… allora riesco a lasciare posto perché la grazia di Dio possa agire in me facendo anche cose grandi, facendomi vivere esperienze che non mi sarei aspettato, aprendo il mio cuore alla gratitudine e alla gratuità di chi si riconosce donato e non “dovuto” al mondo.

E così ecco entrare in gioco la seconda parabola. Dio non è il nostro padrone che cinicamente chiede al servo stanco di lavorare ancora per lui che se ne sta in panciolle a godere della sua ricchezza; l’immagine ci rimanda invece alla dedizione di quel servo che si offre interamente per il suo Signore. Si tratta di quella gratitudine e gratuità di cui accennavo prima. Il servo, il cristiano pone tutta la sua esistenza nelle mani e nella misericordia del Signore il quale non spadroneggia su di noi, ma ci avvolge di amore.

Ponga il Signore nel nostro cuore la mansuetudine, la docilità, la gratitudine di chi riconosce di aver posto il senso della sua esistenza in mani sicure, di chi comprende che il Signore non tradisce, non ti abbandona, ma ti assicura ciò di cui hai bisogno.

Quanta libertà serve per pronunciare quella frase finale: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”. Ci libera da noi stessi e dai condizionamenti che abbiamo intorno, ci aiuta a riconoscere che il di più viene fatto non da noi, dal nostro impegno, dai nostri programmi, ma è la grazia di Dio che dona compimento alla nostra esistenza e diviene mèta della nostra vita purché le permettiamo di essere bussola della nostra esistenza.

Di |2016-10-02T13:08:59+02:0002/10/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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25 settembre

XXVI domenica del Tempo Ordinario

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Quest’oggi il Vangelo ci ha proposto una parabola, non un racconto reale… Gesù utilizza delle immagini che ci aiutano a capire, non fermiamoci però alle immagini stesse, altrimenti il rischio è di confondere l’inferno con un vulcano o una sauna… ma non fermiamoci nemmeno alla semplice regola del contrappasso dantesco per cui nell’aldilà avrai l’opposto di quanto hai avuto o vissuto su questa terra…

Per prima cosa credo che tutti abbiamo notato come il ricco non ha nome, mentre il povero si chiama Lazzaro. L’assenza del nome del ricco ci aiuta a metterci nei suoi panni, a riconoscerci in lui quando anche noi mettiamo davanti agli altri oppure davanti al Signore o al senso della nostra vita le ricchezze, quasi che siano le ricchezze a renderci interessanti… a darci valore… invece noi valiamo proprio perché siamo dono di Dio e non per le ricchezze che possiamo in qualche modo esserci conquistati su questa terra… siamo molto più importanti noi come persone rispetto alle cose che abbiamo o alla posizione che ricopriamo… eppure questo spesso è riconoscibile solo da coloro che non hanno molte cose e comprendono che il dono più grande è proprio la loro stessa vita.

Inoltre ci stupisce l’indifferenza del ricco nei confronti di Lazzaro che siede alla sua porta… sembra quasi non vederlo, accecato da quei soldi, da quei banchetti e feste che sono diventati ormai il tutto della sua vita… i cani si accorgono di Lazzaro, il ricco no!

Ed ecco che entrambi muoiono ma l’esito della morte è diverso per i due: colui che si è sempre affidato alla sua ricchezza, che ha creduto di essere autosufficiente, di bastare a sé stesso senza bisogno di un Altro, di Dio… ecco che si ritrova potremmo dire con una zavorra nelle tasche e scende… negli inferi, lontano dal volto di quel Dio del quale non ha mai voluto incrociare lo sguardo. Invece Lazzaro, che ha vissuto della provvidenza, che si è affidato al Signore, ecco che viene portato in Paradiso. Possiamo dire che la scelta fatta nel corso della vita ha bloccato le mani persino a Dio… chi non ha voluto stare con lui non verrà obbligato a farlo per l’eternità… misericordia allora non vuol dire colpo di spugna sull’esistenza in questa vita… il Signore non ci prende per il collo a volergli bene, ma basta una briciola di amore per lui che tutto cambia, basta ascoltare quanto Lui ci offre nella sua Parola e nel suo Figlio risorto per noi ed ecco che il suo cuore si scioglie, la sua misericordia trova lo spazio di agire. Il Signore non ci trovi con il cuore freddo e indifferente verso quanti ci passano accanto ma ci aiuti ad aprire gli occhi su di loro e a riconoscerci tutti figli suoi, bisognosi del suo abbraccio di Padre.

Di |2016-09-24T14:04:17+02:0025/09/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale

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18 settembre

XXV domenica del Tempo Ordinario

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Proprio in questa domenica nella quale la Chiesa italiana si pone accanto alle popolazioni terremotate esprimendo la propria solidarietà concreta attraverso la colletta nazionale: una raccolta di denaro da destinare a quanti hanno perso tutto perché possano in qualche modo ripartire… proprio oggi, il Vangelo ci parla di ricchezza, di utilizzo dei beni di questo mondo.

Per prima cosa la parabola iniziale non ci vuole insegnare come truffare in questo mondo… ma si tratta di un paragone per assurdo… cioè come i disonesti nel mondo riescono ad essere scaltri nel ricercare una via di salvezza e la imboccano con molto coraggio, così anche noi cristiani siamo invitati a riconoscere la via di salvezza che abbiamo davanti e che consiste proprio nella fedeltà al Signore… sì, siamo in qualche modo trovati mancanti, disonesti… abbiamo molto peccato, eppure il Signore ci offre la via di salvezza: fidarci di lui, consegnarci ancora una volta a lui e al suo amore misericordioso…

Ecco che Gesù ci invita non a diventare disonesti… perché la disonestà non ripaga nemmeno quando credi di averla fatta franca… puoi essere rimosso dal tuo incarico, da quella sedia che tanto ti sei imbottito sotto in ogni momento… attento sempre a non far diventare un incarico che hai o un servizio che svolgi o un dono che ti è fatto… un diritto da brandire di fronte agli altri… perché prima o poi ti verrà chiesto conto se hai fatto di quel posto, di quell’incarico un’occasione di salvezza tua e degli altri o un’occasione per spadroneggiare.

Così, allora, è per il denaro, per la ricchezza in generale… se diventa il fine della nostra esistenza, l’idolo per il quale compiamo ogni nostra azione, questo ci allontana dal Signore, come quell’amministratore allontanato dal suo padrone perché il cuore era disonesto, attaccato appunto al denaro… se invece i beni che abbiamo li sappiamo condividere con gli altri, renderli strumento per incontrarci, per relazionarci, per volerci bene e aiutarci, allora questi beni ci apriranno le porte delle dimore eterne, ci apriranno la porta del paradiso…

Non potete servire Dio e la ricchezza è l’annuncio finale fatto da Gesù: se la ricchezza diventa un idolo da servire, allora ci allontana dal Signore e dalla possibilità della salvezza, se invece ci apriamo alla comunione e condivisione con gli altri, questa ricchezza diventa un aiuto che ci è messo a disposizione in questa vita per preparare il nostro cuore a fare spazio al vero Signore della nostra esistenza.

Di |2016-09-18T13:06:58+02:0018/09/2016|Senza categoria|Commenti disabilitati su Commento alla Parola domenicale
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