Commento alla Parola

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Commento alla Parola domenicale

17 giugno

XI domenica del tempo ordinario

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Senza parabole Gesù non parlava alla folla… in questa domenica ci viene presentato proprio questo linguaggio così particolare, potremmo dire che è quasi il linguaggio “proprio” di Gesù, quello nel quale sono espressi probabilmente il maggior numero di eventi, di racconti, di discorsi… il Maestro di Nazareth si serve di immagini tratte dalla vita quotidiana dei suoi connazionali proprio per far sì che il suo annuncio non sia qualcosa di lontano, di posticcio… certamente rimarrà qualcosa di nuovo, di scandaloso perché diverso da quanto veniva annunciato dagli scribi e dai farisei, eppure in qualche modo, questo linguaggio permetteva di sentire un po’ più vicine e accessibili le parole di Gesù, sentire che in qualche modo avevano a che fare con la vita vera di persone vere e non con puri ragionamenti campati nelle nuvole di pure teorie.

Gesù si presenta a noi, proprio così: vuole avere qualcosa da dire alla nostra vita, ci tiene – potremmo dire – ad avere a che fare con il nostro vissuto quotidiano.

Ed ecco che, parlando ad una popolazione di contadini, quale immagine migliore del prodigio di un seme che pian piano si trasforma producendo frutto. Il Regno di Dio è proprio questo, non qualcosa di eclatante, non qualcosa che fa rumore, non qualcosa di improvviso, ma il Regno di Dio è qualcosa che cresce, giorno dopo giorno, proprio come il seme… è difficile osservare e misurare quanto cresce, magari di settimana in settimana ti accorgi… ma se hai fretta sembra che quel seme si fermi… è così… se hai pazienza cresce veloce… guardando i campi da una settimana con l’altra ci accorgiamo di quanto cresce l’erba, il grano ecc. ma se abbiamo fretta e ogni 5 minuti andiamo a controllare… non ci accorgiamo della crescita e sembra che tutto sia fermo.

Anche la nostra fede, anche il Regno di Dio agisce proprio allo stesso modo… se guardo il mio cammino di conversione mi sembra di essere sempre allo stesso punto, di compiere sempre gli stessi errori, magari anche quando vado a confessarmi percepisco una specie di frustrazione perché mi trovo a ripetere sempre gli stessi peccati… eppure se provo a guardare bene, se non guardo a quanto sono cambiato rispetto a ieri o a settimana scorsa, ma se butto lo sguardo un po’ più in là… se onestamente ho lasciato che il Signore agisse all’interno della mia vita, potrò accorgermi che il Regno di Dio veramente è presente… allora sì potrò vedere che magari dei passi concreti li ho compiuti… non aspettiamo che il Regno faccia rumore nella nostra vita, ma apriamo gli occhi e ci accorgeremo che siamo noi quegli uccelli del cielo che hanno trovato già ombra e ristoro fra i suoi rami.

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10 giugno

X domenica del tempo ordinario

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Due atteggiamenti diversi ci vengono proposti all’interno del Vangelo che abbiamo appena ascoltato: un atteggiamento di distanza e diffidenza da un lato, e dall’altra parte coloro che si siedono ai piedi di Gesù.

Sia i parenti di Gesù, sia gli scribi giunti da Gerusalemme rimangono a distanza infatti rispetto a quanto sta facendo e dicendo questo maestro. Guardano da lontano, da casa i primi, da Gerusalemme gli altri… e da fuori eccoli ergersi a giudici nei confronti del suo operato, un giudizio ovviamente superficiale, il giudizio di chi non conosce e solo sulla base di un paio di notizie giunge già ad avere tutto chiaro e la soluzione ad ogni dubbio, lo incasellano per benino nei loro schemi mentali… è fuori di sé… è il capo dei demoni.

Quante volte anche noi, ci poniamo da spettatori, da osservatori che guardano dall’esterno ciò che avviene, ce ne guardiamo bene dallo sporcarci le mani, dal vivere a contatto con la comunità, con i suoi bisogni… ma da fuori quanti giudizi e pregiudizi ci permettiamo sempre partendo da una superficialità di sparare contro gli altri, così come il Vangelo ha espresso quest’oggi è avvenuto per lo stesso Gesù…

Certo che Gesù è fuori di sé, è tutta la sua vita un essere fuori di sé… è uscito dal Padre per venire in mezzo a noi, per farsi uomo e salvarci, ha vissuto tutta la sua vita umana come una donazione, come un essere proteso verso l’esterno, verso gli altri, per poterne portare a salvezza il maggior numero.

D’altro canto, il brano di oggi ci mostra un altro atteggiamento, quello di quanti sono seduti attorno a lui, quella folla indefinita di persone che hanno visto in lui il Maestro vero, colui che aveva qualcosa di importante e di profondo da dire alla loro esistenza. Si sono messi in ascolto, hanno fatto entrare quei gesti nei loro occhi e da lì hanno raggiunto il loro cuore. Non è solo il fascino dell’emozione di un momento che ti prende il cuore, ma è la Parola del Maestro che ti raggiunge e ti cambia la vita, perché ti proietta verso altro, così come lui è proiettato verso altro. Quella Parola che ti trasforma radicalmente e ti fa diventare madre, fratello, sorella del Signore. Si perché ascoltare e fare la volontà di Dio ci trasforma dall’interno, ci rende persone nuove, ci inserisce in un dinamismo nuovo perché in Gesù siamo tutti veramente fratelli fra di noi perché tutti fratelli suoi e se siamo fratelli suoi siamo anche figli dell’unico Padre che è nei cieli. Ci aiuti il Signore a sceglierlo nella nostra vita, a porci attorno a lui in ascolto della sua parola e questo ascolto si trasformi in vita nuova, ci renda familiari suoi e fra di noi.

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03 giugno

Solennità del Corpus Domini

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Prendete… celebriamo quest’oggi la festa della consegna di Gesù ad ogni uomo, la sua vita giunge al culmine, è il punto più alto della sua manifestazione, il progetto e mistero salvifico del Padre sta per compiersi. Tutta la sua vita è stata una consegna all’umanità e una consegna dell’umanità al Padre. In questo gesto ecco che entrambi questi movimenti trovano sintesi, culmine e significato.

In quel frammento di pane, un pane che non è intero ma è un pane spezzato, come spezzata è stata la sua vita e come lo sarà anche fisicamente poche ore dopo, con la sua morte in croce… ma non solo un pane spezzato perché segno della fraternità, di una comunione che siamo chiamati a costruire ogni giorno… è per molti, non per uno solo, è un pane che viene consegnato non come qualcosa di esclusivo ma come qualcosa che ci fa sentire tutti più vicini perché nutriti dello stesso cibo. Lo stesso vale per quel sorso di vino che è versato, non è conservato in una bottiglia ben sigillata… è versato proprio perché venga bevuto e il vino è il segno della festa, della gioia piena.

Con questi due gesti Gesù si offre interamente all’umanità, si consegna a noi perché la nostra vita sia sempre più simile alla sua, perché possiamo avvicinarci sempre più a Lui e imparare a donarci gli uni gli altri con un amore sempre più simile al suo.

E il secondo movimento è quello della consegna dell’umanità al Padre. Il nostro radunarci intorno all’altare infatti ci pone in relazione diretta con la liturgia del cielo, in attesa della visione piena, della Pasqua eterna della Gerusalemme del cielo (come abbiamo pregato nell’orazione di colletta). Gesù, proprio al culmine della sua vita, ci riconsegna al Padre, nell’attesa di bere nuovamente il vino nuovo nel Regno di Dio.

Il sacramento che ogni giorno la Chiesa celebra in tutto il mondo, ci rende partecipi pienamente di questo mistero di salvezza. Gesù che si offre come nostro nutrimento ci costituisce nell’unità della Chiesa, come una comunità di fratelli e non come un’accozzaglia di individui che cercano il modo di emergere facendo capolino in una società dove l’anonimato la fa da padrone. Possa lo stile di Gesù diventare sempre più lo stile di ciascuno di noi, chiamati a spezzarci per gli altri perché lui si è spezzato per noi, chiamati a riconoscere nell’altro un fratello perché si nutre dell’unico pane spezzato per noi; chiamati ad avere uno sguardo proiettato verso il cielo riconoscendo che quanto celebriamo ogni domenica è, in fondo, un anticipo di paradiso… possano anche i nostri riti avere sempre più il carattere della festa per pregustare già qui il sapore del paradiso

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27 maggio

Solennità della SS. Trinità

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Andate e fate discepoli, battezzandoli.

È l’invito, anzi l’incarico che Gesù ha affidato agli apostoli. L’invito a non rimanere soli, chiusi in un gruppo elitario che sta bene insieme, un gruppo che per tre anni ha vissuto un’esperienza straordinaria ed ora vive di ricordi, magari anche di rassegnazione o peggio di nostalgia per quando c’era il Maestro e… allora sì che le cose andavano bene…

Gesù nel salutarli, invece, potremmo dire che genera un movimento centrifugo, li manda, li invia, li allontana quasi, non con l’idea di dividere gli undici ma proprio per far sì che quel messaggio possa raggiungere ogni angolo della terra.

E le consegne sono tre: fate discepoli, battezzate, insegnate a osservare. Fare discepoli implica la dimensione dell’annuncio, la Parola che raggiunge tutti i popoli perché riconoscano nel Signore l’unica via di salvezza; battezzare, il segno visibile della conversione, il consegnarsi a quell’amore trinitario del Padre, Figlio e Spirito Santo, lo stesso amore che oggi stiamo celebrando in questa solennità; e da ultimo insegnare ad osservare che mi richiama più da vicino il tema della testimonianza concreta, la testimonianza di vita… insegnare ad osservare non è questione di mettersi lì, a tavolino a comprendere tutti i cavilli della legge, come facevano scribi e farisei nei confronti della legge di Mosè, ma è mostrare con la propria condotta di vita cosa vuol dire osservare i comandamenti che Gesù ci ha consegnato, e il primo comandamento, lo sappiamo, è quello dell’amore a Dio e al prossimo come ciascuno di noi ama sé stesso.

Nell’invio però c’è anche una consegna, o meglio un essere consegnati: Gesù non li invia lasciandoli soli ma promettendo la sua presenza e vicinanza ogni giorno. È la sua forza che ha sostenuto l’annuncio dei primi discepoli e che dopo 2000 anni, ancora tiene unita, tiene in piedi la Chiesa.

In questi giorni è presente nella nostra città e nella nostra diocesi la reliquia di San Giovanni XXIII, il legame affettivo di buona parte della gente della nostra terra è certamente forte, è stato un testimone proprio di questo sentirsi accompagnato ogni giorno dalla presenza del Signore, anche quando le scelte dei superiori sembravano incomprensibili e lo portavano lontano, non solo in termini spaziali, ma lontano anche dalle scelte che sembravano a lui più confacenti, eppure anche lì si è sentito accompagnato dal Signore e dalla Chiesa e ha lasciato che fosse lo Spirito a guidare i suoi passi. Chiediamo anche noi di riconoscere ogni giorno la grazia del battesimo che si rinnova in noi, sentiamoci abbracciati e innestati in quel mistero d’amore che è la Divina Trinità e questo ci aiuti a diventare sempre più testimoni credibili non di noi stessi, ma di Lui.

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20 maggio

Solennità di Pentecoste

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L’invito che ci ha rivolto Gesù nel vangelo che abbiamo appena ascoltato è quello a diventare suoi testimoni, a dare testimonianza di lui. Dare testimonianza, essere testimoni è un compito che normalmente ha a che fare con la giustizia: in caso di giudizio o di contesa, si cercano dei testimoni che esprimano ciò che hanno visto o sentito. Per poter essere testimoni bisogna essere stati presenti al fatto, averlo sperimentato in prima persona… non puoi essere testimone di un incidente se tu sei in un’altra città…

Gesù invita i suoi discepoli, anzitutto quelli che sono stati con lui fin dal principio, a diventare suoi testimoni, a raccontare ciò che hanno visto, ciò che hanno sperimentato nella loro vita, in quella relazione particolare e privilegiata che deve essere stata il camminare fianco a fianco del Maestro, ascoltare le sue parole… la fatica anche a comprenderle nel profondo e i conseguenti rimproveri da parte di Gesù per la loro chiusura di cuore. Ma non solo, non è solamente questione di parole da annunciare, ma di vita che deve far trasparire che quell’incontro li ha cambiati, che quell’incontro aveva veramente qualcosa di grande da dire alla vita di ogni uomo. Essere testimoni, va al di là del racconto, chiede di rendere la loro vita un po’ più simile a quella di Gesù.

Che cosa straordinaria stiamo celebrando… il fatto che i discepoli non saranno lasciati soli a rendere testimonianza, perché non si credano dei superuomini e perché non rimangano schiacciati dal peso della testimonianza stessa, dalla fatica quando il mondo non vorrà accogliere la parola del Maestro, così come non accolse il Maestro e lo uccise appendendolo alla croce. Il Padre invierà lo Spirito, il Paraclito, colui che sostiene nella fatica, colui che aiuta nella testimonianza perché doni la forza a quei discepoli.

E quanta forza ha dato e ancora offre alla Chiesa, se ancora dopo 2000 anni, nonostante tutte le piccolezze e fragilità umane che si porta dietro per il fatto di essere fatta di uomini in carne e ossa e quindi peccatori, come ciascuno di noi… ma sostenuta e mantenuta nell’unità proprio dal dono e dall’azione dello Spirito che continuamente si rinnova.

Infatti, oggi, ciascuno di noi è chiamato ad essere, come quei discepoli, testimone del Signore, a raccontare del nostro incontro con Lui, di come Lui ci ha cambiato la vita, di come ci riempie l’esistenza, di quanta gioia ci mette nel cuore l’incontrarci come una grande famiglia di fratelli, ciascuno con i suoi difetti, certo, come ogni fratello, ma con lui che ci tiene uniti perché tutti abbiamo lo sguardo rivolto verso di lui… chiediamogli che l’Eucarestia sia questo momento di gioia che ci apre al diventare suoi testimoni con la nostra vita.

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06 maggio

VI domenica del tempo pasquale

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Potremmo quasi definire questa domenica la “domenica dell’amore” perché il Vangelo ci ha raggiunti con molta forza rispetto alla dimensione dell’amore… ben 9 volte si ripete infatti la dimensione dell’amore come sostantivo o come verbo, si aggiunge poi la dimensione dell’amore di amicizia per altre 3 volte…

Amare non perché ne siamo capaci noi, amare non perché è qualcosa di bello, di comodo, di accomodante… Amare sull’esempio di Cristo che ama il Padre osservando i suoi comandamenti, cioè facendo la sua volontà… cioè offrendo tutto sé stesso per l’umanità, senza trattenere nulla per sé. Un’obbedienza che è quella dell’amore e non quella della schiavitù. Noi, umanamente le chiamiamo allo stesso modo, eppure sono 2 modi di obbedire profondamente diversi. Posso obbedire perché ho un lavoro con un certo mansionario, con alcuni incarichi dei quali mi verrà in qualche modo chiesto conto, dovrò rispondere sull’aver portato a termine quanto mi era stato affidato. Posso obbedire per paura delle conseguenze, come avviene nei casi di regimi assoluti o di bullismo o di violenza. Oppure posso obbedire perché amo la persona che mi chiede quella cosa, obbedire perché sono in sintonia, perché è qualcosa per la quale il mio cuore ha una propensione, una passione e quanto si vede la differenza nelle azioni delle persone, quando riescono a trasformare l’obbedienza ad un incarico in un’obbedienza ad un amore.

E l’effetto di questa obbedienza all’amore è dirompente perché porta con sé la dimensione della gioia, così come il Signore ce la promette: la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Gesù ci chiama a diventare cristiani gioiosi, capaci di amare, di agire per amore, di mettere il cuore in tutto ciò che facciamo. Certo che le giornate di ciascuno di noi sono tutte piene, sono zeppe di impegni, di cose da fare, di incontri, di incombenze da assolvere… eppure come cambia sapore la nostra giornata quando riusciamo a metterci la dimensione dell’amore, quando riusciamo a fare tutto con il cuore, con un cuore che palpita, che non vede l’altro come un concorrente alla mia gioia, alla mia realizzazione, non vede chi gli passa accanto come un incidente di percorso, ma lo incontriamo come colui che ci aiuta a vivere la dimensione della gioia perché la nostra giornata e, quindi, la nostra vita assumono un senso che va oltre le cose da fare ma ci fanno incontrare gli altri.

Allora sì, diventeremo capaci di dare la vita per i nostri amici, che non è detto voglia dire morire per altri, ma offrire il nostro tempo, il nostro cuore, la nostra passione per chi ci passa accanto, vuol dire amarci veramente gli uni gli altri.

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29 aprile

V domenica del tempo pasquale

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Se settimana scorsa il vangelo ci ha portati a gustare la relazione del pastore con ciascuna delle sue pecore, in un legame di profonda e totale dedizione e donazione, questa settimana, l’immagine ci giunge ancora dal mondo della natura, ma questa volta dai campi ed in particolare dalla vigna. Questa settimana, però, l’immagine è quasi capovolta. In quanto non è osservata tanto dal punto di vista della vite, del tronco originario che conduce la linfa, ma dal punto di vista nostro, dei tralci. Sembra quasi essere un parallelo a specchio, una risposta quasi al brano di settimana scorsa: se il buon pastore da la vita per le pecore… ed è la vite che conduce la linfa fino ai tralci, da parte loro, o meglio, da parte nostra siamo chiamati a portare frutto, a rimanere innestati in quella vite.

Se un tralcio non è innestato nella vite secca, perde il suo nutrimento, è incapace di nutrirsi da solo ma ha bisogno che il tronco, la vite lo nutra. Il Signore è la vite, così ci ha detto lui stesso nel vangelo, lui è colui che ci nutre veramente ogni volta che ci accostiamo alla sua Mensa. Ci nutre alla mensa della Parola e ci nutre col suo corpo e il suo sangue alla mensa eucaristica. Gesù non si tira indietro, non smette di offrirsi per noi, di regalarci tutto sé stesso, ma sta a noi decidere di volerci nutrire di lui. Se un tralcio decidesse di non aver bisogno della vite e di smettere di attingere dalla vite la linfa vitale, nell’arco di pochissimo tempo seccherebbe e morirebbe. È Cristo il nostro nutrimento, è lui che ci offre la possibilità di portare frutto nelle nostre giornate. A quanta libertà ci apre il brano di vangelo di oggi, quanto ci viene detto che glorifichiamo il Padre portando frutto e diventando discepoli. È in una vita piena, buona, bella, capace di realizzare qualcosa di bene per gli altri che ciascuno di noi glorifica il Padre, sì perché in fin dei conti il tralcio non produce il frutto per tenerselo attaccato addosso, per coccolarselo, altrimenti il frutto se diventa attaccamento bramoso marcisce, smette di essere qualcosa di buono. Il tralcio produce il frutto perché questo venga gustato da altri, perché diventi qualcosa di buono da mangiare o da bere se trasformato in vino. Così è per la nostra vita, se le cose buone o le belle relazioni che la caratterizzano le vogliamo tenere troppo strette, solo per noi, custodite gelosamente come una proprietà esclusiva… prima o poi fanno la fine di quei frutti: marciscono. Se invece ci apriamo e condividiamo la bontà della nostra vita, allora mettiamo a disposizione di tutti quei frutti che la vite,  il Signore ci ha permesso di produrre, allora sì vivremo una vera fraternità, allora sì il nostro essere discepoli sarà autentico a gloria del Padre.

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22 aprile

IV domenica del tempo pasquale

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Io sono il buon pastore.

Quest’oggi ci lasciamo guidare e condurre proprio come delle pecore dalla voce del pastore che si presenta a noi, come colui che si prende cura di noi. Non perché in qualche modo incaricato, non perché ne tragga un vantaggio personale come un mercenario che conduce le pecore perché ha un proprio guadagno personale.

Quante volte cerchiamo un ritorno personale in quanto facciamo, quante volte piccoli gesti li facciamo sembrare la salvezza del mondo intero, quante volte la mettiamo giù dura col valore di quanto abbiamo fatto o di quanto ci è stato chiesto, spesso abbiamo bisogno di essere visti perché questo dà valore a ciò che facciamo… quanta fatica a vivere la dimensione della gratuità che invece contraddistingue il pastore vero.

È l’affetto per quelle pecore indifese e incapaci di badare e bastare a sé stesse che lo muove. Lui le conosce, non perché le conta e sa quante sono ma le conosce una a una, ci conosce, conosce ciascuno di noi personalmente nei nostri bisogni, nelle nostre capacità e possibilità ma anche in quelle fatiche che ci troviamo quotidianamente ad affrontare. Quanta pace ci offre riconoscere di essere condotti, riuscire a consegnarci nelle sue mani, ci rappacifica il cuore, non ci deresponsabilizza ma ci aiuta a consegnare nelle sue mani quanto siamo stati capaci o no di fare.

Lui, buon pastore, si è schierato e continuamente continua a farlo perché il lupo non abbia a sbranare le pecore. L’ha fatto quando ha affrontato il lupo più grave, la morte e l’ha vinta a  nostro favore. È morto sulla croce per noi e da lì ha sconfitto la morte perché il Signore della vita è Risorto, come abbiamo acclamato il giorno di Pasqua.

Ma ancora oggi si schiera a nostro favore per affrontare tutti quei lupi che attanagliano la nostra esistenza. Ci fa sentire non da soli ma accompagnati, ci offre il suo amore, la sua vicinanza, il suo sostegno.

Certo oggi la sua presenza ci viene offerta da persone che mettono tutta la loro vita nelle sue mani e si mettono a servizio delle comunità alle quali sono affidati perché spezzino ancora il pane e offrano il perdono del Signore, lo rendano presente nella manifestazione concreta del suo amore. Preghiamo per noi sacerdoti perché possiamo essere sempre meno mercenari e più pastori, ma preghiamo anche perché il Signore non faccia mai mancare pastori santi alle sue comunità.

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15 aprile

III domenica del tempo pasquale

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Gesù in persona… anche questa domenica la liturgia ci presenta un’apparizione del Risorto, abbiamo ascoltato la versione lucana di quella sera di Pasqua, la stessa sera che abbiamo ascoltato settimana scorsa nel Vangelo secondo Giovanni. Gesù appare e si mostra ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo con alcuni segni speciali che aiutano a riconoscerlo. Per prima cosa offre la pace, è il suo saluto: la sua presenza nel mondo è una presenza di pace, l’incontro autentico con lui ci offre una pace interiore che siamo chiamati a far trasparire anche all’esterno perché pian piano contagi le persone che ci stanno a fianco e questa pace possa andare a raggiungere tutti gli angoli della terra anche quelli che sono oggi più in crisi dal punto di vista proprio dei conflitti. Ciascuno di noi può dire: “La pace comincia da me, da come la costruisco intorno a me”. Pace non è quieto vivere, pace non è sorrisetti in faccia e pugnalate dietro le spalle, pace è anzitutto verità con sé stessi e con gli altri. Dopo aver offerto la pace, Gesù mostra le proprie mani e piedi, mostra ai discepoli i segni della passione, quei segni che erano così necessari settimana scorsa a Tommaso per poter credere… sì non possiamo mai dimenticare che il Crocifisso è Risorto… che la passione e morte per la nostra salvezza non si dimentica, non è stata una brutta esperienza da cancellare, la risurrezione non è stata un tornare al giovedì santo come se nulla fosse successo, la passione ha segnato Dio stesso per l’eternità, sì l’ha segnato della sua passione per l’umanità, del suo amore per ciascuno di noi, del suo desiderio della nostra salvezza ad ogni costo. E poi chiede ai discepoli qualcosa da mangiare, siede a tavola con loro, così come fu l’ultimo gesto vissuto insieme, l’ultima cena, li raduna di nuovo intorno a quella tavola, mangia con loro e spiega loro le Scritture, quanto nella Bibbia parlava già di lui, molto prima della sua nascita e della sua morte.

È quello che siamo qui a fare ancora oggi, in sua presenza, qui, intorno a questa tavola, a questa mensa, che è proprio il Risorto, lui ci offre il suo corpo e il suo sangue, dopo aver accolto le Scritture, dopo aver ascoltato la sua Parola. Ogni domenica siamo invitati alla cena del Signore – come diremo appena prima della comunione – i discepoli erano pieni di gioia e di stupore dall’incontro con Gesù, chiediamogli che anche il nostro incontro con lui ci apra ogni volta a queste dimensioni della fede, non ci capiti di vivere la fede come qualcosa di già sentito, qualcosa di ripetitivo che non ha più nulla da dirci o qualcosa di noioso che non ci fa più gioire per l’incontro più straordinario della nostra esistenza. Uscendo di chiesa anche noi siamo chiamati, come i discepoli a diventare testimoni di questo incontro e di questa gioia con quanti incontriamo nella nostra vita.

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08 aprile

Domenica della Divina Misericordia

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Al termine dell’ottava di Pasqua, la Chiesa ci offre, nella liturgia della parola, il duplice episodio dell’apparizione di Gesù nel cenacolo, davanti ai suoi discepoli.

Se domenica scorsa abbiamo celebrato un’assenza, una tomba rimasta vuota, quest’oggi eccoci di fronte alla presenza più tangibile, al Risorto che si manifesta con il suo corpo piagato.

Abbiamo ascoltato una duplice apparizione a distanza di otto giorni, sempre in quel primo giorno della settimana, il giorno della comunità, il giorno che diventerà pasqua settimanale perché proprio ogni otto giorni la Chiesa renderà presente e vivo il mistero della risurrezione che ci offre la salvezza. Quanta grazia il fatto che Gesù sia apparso alla comunità, non ad un singolo, bensì ad una comunità riunita insieme, proprio lì dove si era riunita l’ultima volta proprio per mangiare quella cena pasquale.

Il Signore ci rimanda quest’oggi proprio al bisogno di vivere la fede all’interno di un’esperienza comunitaria. I discepoli riuniti insieme fanno esperienza di lui, lo vedono, ricevono da lui il dono della pace che porta con sé la dimensione della gioia di quell’incontro. Tommaso è assente, non è lì con il resto della comunità, addirittura, al suo rientro sembra quasi distaccato, non credere a quanto gli viene riportato… troppo bello per essere vero… ma Gesù non appare a Tommaso da solo, per convincerlo di quanto aveva ascoltato dagli altri discepoli, invece attende ben otto giorni e il primo giorno della settimana successiva eccolo tornare in mezzo alla comunità nella quale questa volta è presente anche Tommaso.

Gesù accoglie la provocazione di incredulità di Tommaso e lo invita a compiere proprio quei gesti che aveva dichiarato necessari per la sua fede. Tommaso quel dito e quella mano non li muoverà, contrariamente a quanto tanti artisti erroneamente hanno rappresentato. Tommaso si sente accolto nel suo desiderio più profondo e questo gli basta, portandolo a fare la professione di fede più bella e più alta: mio Signore e mio Dio.

Ma ecco che Gesù, di nuovo lo rimanda alla comunità, lo rimanda al credere all’annuncio della risurrezione che la comunità gli ha testimoniato con la sua parola. È quanto chiede anche a ciascuno di noi di fare: di non avere più bisogno di toccare, di vedere, di un approccio fisico e sensoriale al Signore, ma di accogliere il messaggio di salvezza che da 2000 anni percorre le strade del mondo, quel messaggio che annuncia che il Signore è veramente risorto e noi siamo chiamati a diventarne testimoni.

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